Lettera dalla trincea (“Il Foglio”, 18 marzo 2020 )

L’espe­rien­za di un me­di­co dell’ospe­da­le Sac­co di Mi­la­no, tra i ma­la­ti do­ve è scom­par­so per­fi­no il la­men­to

DI AME­DEO CAPETTI*

Al di­ret­to­re – So­no un me­di­co del­la pri­ma di­vi­sio­ne di Ma­lat­tie in­fet­ti­ve dell’Ospe­da­le Lui­gi Sac­co di Mi­la­no, fi­no a ie­ri esper­to di te­ra­pia an­ti­re­tro­vi­ra­le con 650 pa­zien­ti sie­ro­po­si­ti­vi per Hiv, ca­ta­pul­ta­to poi co­me tut­ti in re­par­to Co­vid.

Og­gi ho un at­ti­mo di pau­sa e le scri­vo per con­di­vi­de­re i pen­sie­ri che mi af­fol­lava­no la te­sta que­sta mat­ti­na men­tre gui­da­vo per ve­ni­re in ospe­da­le.

Il pri­mo pen­sie­ro era stri­den­te ri­spet­to al for­za­to ot­ti­mi­smo che ve­do in gi­ro in que­sti gior­ni, gli ap­plau­si, la nuo­va ido­la­tria per la clas­se me­di­ca e in­fer­mie­ri­sti­ca. So­no, a mio pa­re­re, tut­ti com­pren­si­bi­li ten­ta­ti­vi di esor­ciz­za­re una uma­nis­si­ma pau­ra, ma de­bo­li quan­to al con­te­nu­to. Ce la fa­re­mo, in­fat­ti, co­sa si­gni­fi­ca? Che dob­bia­mo guar­da­re so­lo al­la fi­ne dell’epidemia sal­tan­do la dram­ma­ti­ci­tà del pre­sen­te? E poi: chi ce la fa­re­mo? Io e lei che ci scri­via­mo? Il po­po­lo ita­lia­no in­te­so astrat­ta­men­te? Tut­to que­sto mi con­vin­ce po­co e mi la­scia fran­ca­men­te per­ples­so.

Se­con­do pen­sie­ro. No­to, e tro­vo che sia un sin­to­mo mol­to im­por­tan­te, la scom­par­sa qua­si to­ta­le del la­men­to. I miei pa­zien­ti in­ve­ce di la­men­tar­si mi man­da­no ogni gior­ni mes­sag­gi per chie­der­mi co­me sto e an­che per par­te­ci­pa­re dell’espe­rien­za in­cre­di­bi­le ed ec­ce­zio­na­le che sto vi­ven­do. E que­sta è la ve­ra ra­gio­ne per cui ho de­ci­so di scri­ver­le.

In ef­fet­ti quel­lo che io sto vi­ven­do, ma cre­do sia espe­rien­za an­che di mol­ti al­tri, è l’av­ve­rar­si di un fe­no­me­no che non di ra­do noi me­di­ci ve­dia­mo in chi è scam­pa­to a un pe­ri­co­lo po­ten­zial­men­te mor­ta­le: l’espe­rien­za di apri­re gli oc­chi e ac­cor­ger­si che nul­la è più scon­ta­to. Os­sia che tut­to è do­no, dal ri­sve­glio del mat­ti­no, dal sa­lu­to ai pro­pri ca­ri a ogni pic­co­la pie­ga di un quo­ti­dia­no che per al­cu­ni è tut­to da riem­pi­re, per al­tri co­me me è di­ven­ta­to, se mai era pen­sa­bi­le, più vor­ti­co­so di pri­ma.

La gra­zia di que­sta nuo­va co­scien­za di sé tra­sfor­ma ra­di­cal­men­te ciò che fac­cia­mo, ge­ne­ra stu­po­re, ami­ci­zia, ci si guar­da e ci si di­ce: og­gi non ci pos­sia­mo ab­brac­cia­re ma un sor­ri­so ci di­ce an­co­ra di più di quan­to po­treb­be di­re un abbraccio. Que­sta con­sa­pe­vo­lez­za ci fa di­ven­ta­re par­te­ci­pi del dram­ma dei no­stri pa­zien­ti e non è as­so­lu­ta­men­te un ca­so che i miei col­le­ghi mi chie­da­no di pre­ga­re non so­lo per i lo­ro ca­ri ma an­che per i lo­ro pa­zien­ti, co­me non era mai suc­ces­so pri­ma. E an­che que­sto è con­ta­gio­so. Ie­ri mi ha chia­ma­to una si­gno­ra di Cre­ma per sen­ti­re no­ti­zie del­la non­na, ri­co­ve­ra­ta al Sac­co, che è mol­to gra­ve. Mi ha ri­fe­ri­to dell’al­tra non­na, mor­ta di Co­vid, e del­la mam­ma, in ria­ni­ma­zio­ne a Cre­ma, poi mi ha det­to: “Ve­de dot­to­re, all’ini­zio io pre­ga­vo, ora non pre­go nem­me­no più”. Io le ho ri­spo­sto: “La ca­pi­sco, si­gno­ra, non si pre­oc­cu­pi, pre­ghe­rò io per lei”. Al sen­tir­lo ha avu­to un sob­bal­zo e ha ri­spo­sto: “No, dot­to­re, se lo fa lei lo fac­cio an­ch’io. E an­che per la mia mam­ma, pre­ghia­mo in­sie­me”.

Tut­to que­sto è ric­chez­za, gra­zia, che se più gen­te ne pren­des­se co­scien­za po­treb­be a mio pa­re­re ave­re an­che un gran­de va­lo­re ci­vi­le: ri­co­no­sce­re che sia­mo fra­gi­li e che tut­to ci è do­na­to, a par­ti­re dal re­spi­ro, og­gi co­sì po­co scon­ta­to, ap­pia­ne­reb­be tante di­ver­gen­ze e di­scus­sio­ni inu­ti­li.

L’ul­ti­mo pen­sie­ro è an­da­to al do­po: espe­rien­za co­mu­ne è che do­po un pe­rio­do di gran­de en­tu­sia­smo con il tem­po tut­to si spe­gne e i vec­chi vi­zi rie­mer­go­no, co­me già la­men­ta­va Dan­te Ali­ghie­ri ri­spet­to al se­co­lo che lo ave­va pre­ce­du­to. Co­sa ci può sal­va­re da que­sta pre­ve­di­bi­le iat­tu­ra? Per quel­lo che ne ca­pi­sco io è ne­ces­sa­rio che que­sta gra­ti­tu­di­ne di­ven­ti un giu­di­zio ri­fles­so su quel­lo che sta suc­ce­den­do, che è be­ne
espresso dalla domanda e dalla curiosità che tutti ci facciamo in questi giorni e che ci mette insieme: qual è, al fondo, l’origine di tutto ciò? Perché improvvisamente i nostri occhi si sono aperti e abbiamo iniziato a intravedere il fondo reale delle cose? Dove ci può portare questa esperienza? Dove ritrovare questo sguardo così umano gli uni verso gli altri che in questi giorni vediamo in tante situazioni? Chi ci può aiutare?
Per me l’esperienza dell’irrompere dello stupore nella vita, per cui nulla è mai scontato e tutto è dato, è iniziata molti anni fa, e quando riaccade è come una ripartenza che rinnova in me la certezza dell’origine. Per altri sarà un cammino nuovo. Io non posso e non voglio dare risposte precostituite perché ognuno potrà capire, come me, solo facendone esperienza. Ma posso suggerire la domanda, perché nulla cada nella scontatezza e nella riduzione, estetica o cervellotica. Poi sono arrivato in ospedale.

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