“Ragazzi, da lunedì diventate Covid”. Così sentenziò il nostro primario, che negli ultimi giorni ci aveva fatto girare la testa per il turbinio di cambiamenti che ci aveva dettato. Ecco, dopo la rianimazione generale, ora toccava anche a noi. La notizia fu recepita con non poco sgomento dal personale. Ma ormai pareva una scelta inevitabile vista la marea montante di pazienti che non accennava a diminuire. Il nostro responsabile, apparentemente impassibile, mandò subito a comprare del nastro adesivo per tracciare i confini tra zona sporca e zona pulita.
“E come si trattano i pz covid?” Tutti ne parlavano ma nessuno aveva ancora chiaro cosa realmente si dovesse fare.
Per capirci qualcosa in più, decidemmo di andare a vedere in rianimazione cosa stesse accadendo da più di una settimana.
Da allora quel reparto era diventato inaccessibile, una roccaforte in cui i nostri colleghi si erano trincerati e da lì raramente si vedeva qualcuno uscire.
Io e la mia collega entrammo in reparto, con una strana soggezione, quasi come se fosse per noi la prima volta. L’odore di disinfettante era pungente, e si sentiva in lontananza qualcuno vociare sull’organizzazione ancora non ottimale.
Entrammo, e una serie di figure giacenti immobili ci accolse. Era una fila di corpi, apparentemente uno uguale all’altro, sedati e curarizzati, coperti da un leggero telino verde, per lo più corpulenti e non particolarmente anziani. Un infermiere bardato dalla testa ai piedi era accanto a uno di loro e stava controllando alcune infusioni. Un silenzio assordante regnava su di essi, solo il leggero sbuffare dei ventilatori lo interrompeva.
Non era la rianimazione a cui eravamo abituati, con pazienti uno diverso dall’altro, magari anche svegli e in movimento, e gli infermieri vicini a loro ad accudirli e far loro una carezza. E i parenti al loro capezzale, che tanto avevamo desiderato nel nostro progetto di rianimazione aperta.
Era diventato un non-lieu, un laboratorio asettico più che il nostro caro vecchio reparto pieno di vita che conoscevamo. Il nostro collega, oramai avvezzo alle procedure di svestizione, ci fece vedere come si spogliava degli indumenti di protezione, con lentezza ed eleganza.
Ci fece vedere le terapie, quantomeno scarne. “La terapia è questa”. “I pazienti? Tutti abbastanza sani e di media età. Un ragazzo trentenne. Tre donne e tutti gli altri uomini sulla sessantina. Ah, quasi tutti sovrappeso”.
Un brivido mi percorse la schiena: “Potrei esserci io lì, mia mamma, mio papà!”, pensai.
Erano persone normalissime, che conducevano una vita normalissima, che mai sarebbero arrivati in rianimazione, se non per gravi motivi sopraggiunti. O perché avevano contratto un virus di cui non sapevamo ancora nulla.
Così ebbe inizio la mia parte di storia.