Donning & doffing & dreaming

Non metto gli occhiali da vista perché mi manca solo un grado e mezzo, mi basta avvicinarmi un po’ per vedere i monitor… se non li ho sono sicuro che non si appanneranno!
Ma gli occhiali di protezione li devo indossare, e quelli sono antiappannanti. Forse non sono mai stati testati per 2 o 3 ore di utilizzo ininterrotto… nella maggior parte dei casi non si appannano ma con il calore corporeo si forma la condensa, tante piccole goccioline che si accumulano sull’interno degli occhiali di protezione che diventano gocciolone e poi scivolano giù, accumulandosi nella parte bassa degli occhiali. Provo a sorridere, pensando che sto guardando il mondo dal punto di vista di un raviolo al vapore del ristorante cinese…
E quanto cazzo brucia il sudore che dalla fronte e dalle sopracciglia ti cola negli occhi. Forse brucia più delle lacrime ma per fortuna le gocce di sudore non sono brave a sincronizzarsi e non ne cadono quasi mai due insieme… e allora lavori con un occhio aperto e uno chiuso strizzato dal bruciore, finché non passa. E quando smette di bruciare forte apri e chiudi l’occhio tre, quattro volte per pulirlo, mentre il collega di fronte pensa che gli stai facendo un segnale, come i nonni che giocano a briscola…
Una delle sensazioni più fastidiose è l’inizio dei decubiti causato dai dispositivi di protezione. Senti le maschere protettive che ti scavano i solchi nella pelle, sulle guance, sugli zigomi, sul naso… cazzo che male che fa… ma è questo il dolore continuo che provano i nostri pazienti quando gli sta venendo una lesione da decubito? Penso proprio di si… l’unica differenza tra me e loro, adesso, e che io non sono sedato. Anche gli elastici delle mascherine filtranti non scherzano… bisogna imparare a metterli bene, meglio sopra a una prima cuffia, altrimenti tirano troppo e segano o ti piantano la mascherina sul naso e scavano, senza pietà, perché quella mascherina sarà l’ultima protezione che dovrai togliere. E respirarci dentro, soprattutto se di mascherine ne hai indossate due, è pesante. Non puoi permetterti di affannarti altrimenti rischi di svenire. E non puoi nemmeno permetterti di sprecarle… l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha modificato le indicazioni all’utilizzo a causa di una “global shortage” e le mascherine con facciale filtrante vanno usate con parsimonia, solo per procedure invasive.
Il calore del corpo mentre lavori, con addosso divisa, camice, altro camice, due o tre paia di guanti, cuffia e altra cuffia, è un altro problema, mentre lavori veloce, per fare prima, per ottimizzare i tempi, per aiutare i colleghi… e perché vuoi toglierti il prima possibile questa “sauna”.
Sauna e lavoro fisico non vanno d’accordo… mi viene quasi il dubbio che in quei film dove “facevano cose” in sauna… la sauna fosse spenta!
Forse dopo tutta questa storia saremo un po’ dimagriti… chissà se riusciremo a riderci sopra considerandola una specie di prova costume… d’altronde il cinico umorismo di noi infermieri è quello che ci salva, che fa un po’ da corazza e chi ci vede da fuori pensa che siamo persone senza cuore, insensibili.
No. Insensibili sono le mie mani, lessate dentro due o tre paia di guanti. Il primo paio lo metto di una misura più piccola, delicatamente, per non romperlo, anche se delicatezza e fretta sono difficili da coniugare. Mi aiuta ad avere maggiore aderenza e a indossare meglio i guanti successivi. Lo incerotto al camice, per evitare che le braccia rimangano scoperte durante la svestizione… si ma chissà quando mi svestirò? Tra mezz’ora o tra tre ore?
In inglese la svestizione si chiama “doffing”… ha un suono onomatopeico che ricorda l’omino Marshmellow dei Ghostbusters, un suono che sa di goffaggine e in effetti con tutta questa roba addosso non può essere altrimenti. E la fase di doffing deve essere rigorosa, lenta, cauta. Una specie di danza rituale, con un collega che ti assiste e ti aiuta a ricordare la sequenza corretta per evitare di contaminarti… perché tu vorresti strapparti tutto in un colpo solo, lavarti la faccia, pisciare, bere due litri di acqua, spararti un caffè buono con la Nespresso (sperando che funzioni), buttarti su un divano per 10 minuti e mandare un messaggio su Whatsapp ai tuoi figli. Quei figli che da ormai una settimana per sicurezza gestisco “a distanza”, quasi come quei bimbetti africani adottati a 5 euro al mese che almeno litigano e si picchiano in Africa e non nella stanza di fianco alla mia. Vorrei dormire ma i pensieri, lo stress e i timori continuano a girarmi per la testa. Vorrei essere ancora al lavoro a fare qualcosa perché non siamo mai abbastanza per tutto quello che c’è da fare. Vorrei seguire i miei pazienti e vedere che migliorano, anche se lentamente. Vorrei che questa prova, questa brutta e difficile prova a cui siamo sottoposti finisca presto. Magari è solo un brutto sogno e quando mi sveglierò sarà una meravigliosa primavera…