Sono tornata a lavorare dopo più di un mese, forzatamente esclusa da questa battaglia a causa proprio di un’infezione da coronavirus. Sono stata proiettata in un mondo a me sconosciuto, i cui protagonisti sono i colleghi, gli infermieri, gli OSS, il personale delle pulizie che in questi 35 giorni di mia assenza non si sono mai risparmiati. Volti stanchi, sfiniti, provati…corpi che non si sono mai arresi alla fatica.
Ho girato per gli ambienti che non riconosco più, cercando di riappropriarmi della partecipazione alla nuova organizzazione. Un pesce fuori d’acqua, insomma.
Ho imparato che gesti prima affrontati con sacro timore, come l’intubazione di un paziente a stomaco pieno o la sua pronazione, ora sono vissuti con scioltezza, perizia, rapidità e attenzione, come parte di una routine che un po’ mi taglia fuori.
Avete presente quando entrate in una stanza dove sono presenti altre persone, che chiacchierano dell’ultima vacanza fatta, delle situazioni che hanno vissuto?
Ecco, devo tornare a far parte del gruppo.
Ma la cosa che mai mi toglierò dalla mente e che mi ha spiegato quanti pazienti sono transitati per la Terapia Intensiva in questo mese di passione, è il corridoio dove sono raccolte le scatole con gli effetti personali delle vittime di questo nemico invisibile. Ognuna col nome e cognome ben in vista, in attesa che qualcuno se ne ricordi.
Pochi vestiti, occhiali, libri, telefoni, fedi nuziali e documenti…gelosamente custoditi in un luogo che per alcuni è stato rinascita, per altri solo un punto di passaggio, per molti- purtroppo – l’ultimo calvario.
Una specie di Museo dell’Olocausto.
Oggi, però, i protagonisti non sono i “cattivi”, ma i “buoni”; persone che portano nelle loro occhiaie, nei segni delle mascherine sul naso, nell’ennesimo caffè, la testimonianza di quanta passione si possa avere per il proprio lavoro