Phone home

Di recente, e per caso, ho scoperto che la famosa frase “E.T. telefono casa” era  diversa se pronunciata nella lingua originale, è incredibile, non ci avevo mai pensato.
E quindi non è “E.T. telefono casa” ma “E.T. phone home” che si pronuncia it fon om, che suona diverso , molto diverso, sicuramente meglio, meno cacofonico con quelle t che in italiano si ripetono e si rafforzano.
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Phone home
Telefono casa

I nostri pazienti sono extraterrestri arrivati da chissà quale pianeta, da chissà quale galassia, dopo chissà quale viaggio, atterrati, precipitati nei nostri ospedali, nei nostri reparti, nelle nostre sale di terapia intensiva.

Loro sono extraterrestri con i caschi, i fili, i circuiti, i cavi, i tubi, entrano e che escono, che entrano o che escono?

Sono extraterrestri che non vedono, non guardano e non sentono, oppure lo fanno ma noi non lo sappiamo.
Loro trasmettono tramite monitor, onde, curve, picchi, plateau, pressioni, sonde, immagini, numeri.
I malati non vedono come noi, non guardano come noi, non sentono come noi.
Noi non vediamo quello che vedono loro, non sentiamo quello che sentono loro.

Noi non vediamo loro quando li guardiamo, noi vediamo la semeiotica dei monitor e del corpo.

Noi siamo dei programmatori al contrario:
i sistemisti scrivono un’azione in una stringa, in una serie di caratteri alfanumerici che formano un codice.
Noi quel codice lo dobbiamo decifrare, leggere, capire, correggere e riscrivere.

È difficile, il lavoro dell’intensivista,
è difficile non poter vedere con i propri occhi quello che sta succedendo e non potersi affidare alle
parole dei malati.
Ci si affida agli strumenti, agli apparecchi, agli esami e alle indagini, ai pensieri alle riflessioni, alle intuizioni e alle discussioni.
E poi il giorno dopo qualcosa succede, o non succede,
e allora di nuovo riflessioni, intuizioni, discussioni, azioni.
Rimane in silenzio il dottore a guardare e ad agire,
un gesto dopo l’altro,
‘un passo dopo l’altro perché vogliamo viviere’.

È difficile per me ricominciare a ragionare così, a guardare così, a vedere così, a muovermi così,
a fare così, è difficile leggere e decifrare la stringa.
Difficile ma non impossibile.

Continuo a ripetermi che va bene così che ci vuole tempo e che non è una gara, non è un esame, non
è un confronto né uno scontro.
Ma non è vero, mi rode tantissimo dover fare un altro lavoro, non essere agile e sicuro come nel
mio lavoro, eseguire per non capire o capire solo dopo avere eseguito,
mi rode tantissimo fare lo specializzando dei miei specializzandi, fare le cose facili, restare indietro su quelle più difficili.
Anche se ogni giorno va un po’ meglio, so che di tutto questo mi rimarrà di più il peso della fatica che la forza delle nuove competenze acquisite.

I pazienti vanno bene,
i pazienti vanno male.
Ci sono pazienti in postazioni vicine che peggiorano insieme o che migliorano insieme.

Ci sono quelli che vanno male, che fanno un passo avanti e due indietro, che non migliorano, che peggiorano e ci lasciano.
Ci sono quelli che vanno avanti che fanno progressi e che migliorano, che mostrano di rispondere alle manovre e che alla fine guariscono.

Quando i malati migliorano tornano a vedere e a guardare, a sentire e a capire.
Lenti, stupiti, affaticati e disorientati tornano all’ascolto e a comunicare con una parola mimata dalle labbra, con un sorriso, con una smorfia.
Tutti ritrovano una lingua semplice e comune,
un pensiero semplice e comune.

Un telefono cordless del reparto o il telefonino di una dottoressa o i nuovissimi tablet comprati grazie alle generose donazioni di questi giorni.

Da casa
appaiono sullo schermo,
in primo piano o a mezzo busto,
da soli o in coppia,
in tuta, in pigiama o in vestaglia,
nell’ombra di una luce domestica o illuminati da una finestra,
con le facce provate, sorprese, emozionate,
con la barba non fatta,
col trucco dimesso,
con gli occhi lucidi
tutti.

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M.R.
Rimini, 5 aprile 2020