Sono un’infermiera, mi sono laureata a dicembre 2019. Ho cominciato con piccoli lavoretti: dai CEOD alla classica casa di riposo. Poi Azienda Zero ha emanato un avviso di reclutamento per l’emergenza Coronavirus, ho inviato la mia candidatura e… mi hanno chiamata! Tre giorni dopo ero a firmare il contratto e il giorno successivo sono approdata direttamente in rianimazione covid, senza affiancamento. Certo, qualche aiuto dai colleghi lo avevo ma ero stata lanciata nella mischia e dovevo darmi da fare. Neanche a dirlo, il primo turno avevo la tachicardia e un’ansia folle. Col passare dei turni, ho acquisito sicurezza nelle “manovre base”. Si poteva capire la frustrazione di tutti: assistenza infermieristica e medica continua, eppure non c’era margine di miglioramento e i pazienti stavano morendo. Solo dopo alcune settimane siamo riusciti a fare la prima estubazione. Mi ricordo un turno, era di pomeriggio. Il medico doveva avvisare i familiari di una paziente che ci stava lasciando. Ha chiesto loro se volevano vederla per videochiamata e hanno acconsentito. La paziente era edematosa e con il tubo orotracheale, il ventilatore erogava FiO2 al 100%. “Vostra madre non riesce più a respirare, vedete? questa è la percentuale di ossigeno che le stiamo erogando. Noi normalmente respiriamo il 20% di ossigeno in aria ambiente, noi le stiamo dando questa percentuale ma non respira. Si presenta così gonfia perché è stata pronata molte ore per vedere se poteva respirare meglio ma purtroppo questa manovra non ha avuto effetto. Volete dirle qualcosa prima che se ne vada? Io posso essere le vostre mani, volete che le faccia il segno della croce se vi fa stare meglio? Io sono a vostra completa disposizione”. Ed eccoci qui, i familiari non possono né vedere né toccare il proprio caro per l’ultima volta. Non potranno mai più vederlo, nemmeno al funerale. Una volta deceduti, le salme vengono portate via ancora con i dispositivi inseriti: il tubo, il cvc, l’accesso arterioso, il catetere vescicale, la sonda rettale NON VENGONO TOLTI. Vengono seppelliti così, con la terapia intensiva addosso, e vengono avvolti in un lenzuolo intriso di alcool e messi nella bara. Non c’è dignità in questa morte. Personalmente, non vedo la mia famiglia da un mese e mezzo, mi sono auto-quarantenata, non vado nemmeno a fare la spesa per paura di contagiare qualcuno. Esco solo per andare a lavoro. Però posso dire che tutti questi sacrifici valgono la pena. Perché assistere alla prima estubazione, poi alla seconda e alla terza e così via mi dà speranza. Quindi, c’è un “lato positivo” in questa storia: dopo tante morti, c’è ancora un barlume di vita che spinge e combatte. Mi riempe il cuore di gioia vedere i “sopravvissuti del coronavirus” uscire dalla terapia intensiva. Mi fa credere che non è tutto perduto.