Quando suona la sveglia, strappandomi dai sogni in cui tutto è normale, mi giro a contemplare la mia famiglia, ancora avvolta dalle setose braccia di Morfeo. Il piccolino, ignaro dell’ombra di morte che sta oscurando le nostre esistenze, stringe il suo peluche, mentre con una mano cerca la calda pelle della mamma. Lei dorme profondamente, con ancora impressa sul viso un’espressione di stanchezza. Ormai il pancione pesa, siamo agli sgoccioli, la fatica si fa sentire.
Distolgo lo sguardo, col cuore gonfio d’amore, inizia la routine.
Gusto ancora l’aroma amaro del caffè sulla lingua, mentre l’auto scivola silenziosa lungo le strade deserte. Sta albeggiando, i primi raggi di sole svelano le saracinesche chiuse, i parcheggi vuoti. In radio una canzone, intensa. Non so se sia lei o il freddo a farmi venire la pelle d’oca, ma il finestrino non lo alzo, no, la necessità di respirare a pieni polmoni l’aria fresca è più forte. Ci sarà tempo per sudare, soffocare.
Nei pressi dell’ospedale incrocio qualche auto, al volante i volti tesi, stanchi, dei colleghi. Dentro, sguardi bassi, qualche sorriso. Non servono saluti, parole, la silenziosa intesa come soldati che si danno il cambio di guardia al fronte basta per farci sentire uniti.
Passando il badge sul timbro, svuoto la mente, da questo momento non esiste più nulla al di fuori delle persone a cui dedicherò le prossime 8 ore.
Salendo le scale, la divisa monouso in TNT emette un fruscìo familiare, lo sguardo si sofferma per un istante sul cartello all’ingresso del reparto, stampato a caratteri cubitali color rosso sangue: CORONA-RIA 1, a coprire il vecchio cartello di terapia intensiva.
Dopo un secondo caffè dal sapore più amaro, si prende consegna dai colleghi della notte, dette tra i denti stretti, con il viso segnato dal profilo delle mascherine, gli occhi gonfi e stanchi, le mani rosse e screpolate, i capelli arruffati. C’è odore di disinfettante nell’aria.
Le consegne sono rapide, hanno tutti lo stesso problema. Grave polmonite interstiziale bilaterale da SARS-Cov-2. Qualche dettaglio sulle modalità di ventilazione, c’è chi va meglio e chi va peggio, ed inizia la vestizione.
Guanti lunghi fino al gomito, camice impermeabile, copriscarpe, secondi guanti, cuffia, mascherina filtrante, schermo facciale. È tutto rapido, automatico, schematico. Come se lo facessimo da anni, non settimane.
Il passaggio dalla zona pulita a quella contaminata è rapido. Chiusa la porta scorrevole mi sento come su una stazione spaziale. Nell’ovattato silenzio si sente solo lo sbuffare dei ventilatori meccanici, in lontananza il bip di un’ambulanza che fa retromarcia.
Lo sguardo scorre rapido sui monitor, a controllare lo scorrere infinito delle linee che sono le uniche a dirci se i pazienti sono vivi.
Immobili nel letto, sedati, intubati, senza alcun contatto con la realtà. Sospesi in un limbo tra la vita e la morte, col cuore che continua a battere, regolare come un metronomo, mentre ogni cellula del corpo combatte l’infezione con tutte le sue risorse. I ventilatori spingono inesorabili litri d’aria nei loro polmoni, con pressioni elevate per evitare che collassino. Qualcuno ha bisogno di macchine da dialisi continua, tutti hanno bisogno di essere nutriti artificialmente. Circondati da pompe meccaniche che infondono farmaci senza sosta, senza sbagliare di un millilitro.
Passano così le ore, tra terapia, igiene, chi deve essere messo prono per aiutare ad espandere i polmoni malati, continui aggiustamenti alle pompe per mantenere la giusta pressione arteriosa, la giusta quantità di urine.
Poche parole tra i colleghi, sappiamo tutti cosa fare e come farlo. Il sottofondo dei ventilatori viene interrotto solo dagli allarmi, qualcuno ha bisogno di essere broncoaspirato, qualcuno ha la pressione bassa.
Gli anestesisti girano tra i letti, modificando i parametri dei ventilatori nel disperato tentativo di far arrivare ossigeno a sufficienza in tutto il corpo.
La mascherina stringe sul volto, faccio fatica a respirare l’aria calda e umida, il camice impermeabile fa grondare di sudore. Prude il naso, non posso toccarmi. La vescica inizia a riempirsi, lo stomaco brontola, gola e lingua chiedono acqua.
Nel frattempo intravedo in un altra stanza allarmare un monitor, linee piatte. Ventilatore spento. Il virus ne ha portato via un altro. Morto da solo. I familiari, in quarantena, lo hanno visto portare via dall’ambulanza, ora vedranno solo la bara chiusa. Non potranno farlo vestire, non potranno dirgli addio. Di Covid-19 si muore soli.
Ma il nostro lavoro non si ferma, non c’è spazio, non c’è tempo per pensare.
Quel letto mezz’ora dopo è già di nuovo occupato. Arriva sveglia, fa fatica a respirare. Chiama i familiari al telefono, piange. Dice che stava per diventare nonna la prima volta. Poi il buio, arriva il sedativo. Intubata. E ricomincia la routine.
Un’ultima occhiata che sia tutto in ordine, poi la svestizione, accurata. Nulla di ciò che è contaminato può uscire dalla stanza. Litri di disinfettante, ovunque.
Fuori respiro, finalmente senza maschera. Ho le mani bianche. Uno sguardo al telefono, nessun messaggio allarmante, il pancione è ancora lì. Se fosse nata mia figlia, l’avrei saputo ore dopo.
Il tempo delle consegne, un pasto trangugiato in fretta, corro a fare la doccia, è l’unico modo che ho per proteggere la mia famiglia.
Mentre torno a casa, in radio ancora una canzone, malinconica. Ma non la sento neanche. Sento solo il cuore battere per la felicità di tornare a casa, ad abbracciare mio figlio, che mi corre incontro appena apro la porta. Papà!!!
Papà è stato a lavoro amore. A lui non importa, non sa cosa faccio. Per lui non esiste la morte. La morte me la legge negli occhi mia moglie, infermiera anche lei. Che ora è a casa perché porta in grembo una vita. Mi stringe, capisce. Ma non ne parliamo.
Il virus, la morte, resta fuori casa, dentro ci sono io, solo un infermiere, non un eroe, a custodire la vita.