Relativamente è da poco che svolgo questa professione, quasi due anni, ma sono sempre stato orgoglioso di indossare la mia uniforme.
Ho cercato di aggiornarmi e perfezionarmi il più possibile nel tempo, credo che continuerò a farlo ancora per molto dato che il paziente ha bisogno di professionisti volenterosi e formati al meglio.
L’unica cosa in cui mi sono sempre sentito in difetto è stata quella dose di empatia necessaria, che so già da me che è molto importante in questo lavoro, ma che per storia affettiva personale o per doti caratteriali, ancora non so se riuscirò a sviluppare più o meno lentamente.
A metà marzo arriva la chiamata da una graduatoria dell’Emilia-Romagna per l’indeterminato, ero molto felice perché proveniente da una zona in cui avevo già lavorato e che per un lato sia personale che lavorativo mi era rimasta impressa positivamente, e non ci penso minimamente a rifiutare; unità operativa proposta: Terapia Intensiva, una delle più grandi del paese, adesso sotto stress per l’emergenza Coronavirus.
Armato di tanta voglia di fare e dare il mio contributo, anche perché sin dal tirocinio della Laurea Triennale e del Master dedicato da poco concluso ho sempre ritenuto questo reparto come quello che fa per me, anche se l’ambientamento sarebbe stato reso più difficile da questa situazione di caos, e per nulla riluttante, accetto volentieri.
I primi giorni scorrono veloci, sono sempre più convinto che sia la posizione fatta per me, i colleghi molto disponibili a capire le mie mancanze e ad insegnarmi a colmarle, anche se mostrano molta fiducia in me lasciandomi fare e dandomi responsabilità laddove è possibile.
Arriviamo alle 6 della mattina scorsa quando ero in procinto di smontare dalla notte e, con i dovuti DPI, mi apprestavo a eseguire i prelievi ematici e gli ultimi controlli alle pompe infusionali.
Giungo al letto della signora Carla, una paziente in netto miglioramento negli ultimi giorni, tanto che la sedazione è stata notevolmente diminuita e lei comincia a mostrare le prime risposte a stimoli verbali.
Ha una tracheostomia da cui viene ventilata, non può parlare, ma i suoi occhi lo fanno per lei: mi guarda, comincia a piangere e mima parole con le labbra.
Capisco ben poco, ma l’essenziale in fin dei conti: era sofferente e magari anche un po’ di compagnia per vedere l’alba le avrebbe fatto del bene; allora, finite le mie cose, mi metto al suo fianco, le stringo la mano, ci guardiamo bene negli occhi oltre la visiera e gli occhiali di protezione e condividiamo tempo e emozioni allo stesso tempo, rivolgendole anche alcune domande a cui poteva rispondere con cenni della testa.
Carla si è sentita a suo agio, accennando anche un sorriso, e nonostante il caldo con annesso sudore della tuta, la stanchezza di una notte fortunatamente poco movimentata ma intensa e la sola voglia di andare a farmi una doccia e stare nel mio letto tutto il giorno, una parola l’ho capita: “grazie”.
Quel “grazie” vale più di mille medaglie o ritorni economici per me, perché ho scoperto finalmente cosa è la vera empatia e mi sono sentito gratificato del mio lavoro, non solo a livello dello studio e impegno che ci metto tutti i giorni, ma anche per l’aiuto che ho dato alla persona.
Guardiamo fine a fine turno l’alba che ormai è agli sgoccioli e per un attimo dimentichi tutte le difficoltà del lavoro nuovo e tutte le mancanze affettive che soffri fuori dal turno.
L’alba tornerà e andrà tutto bene.