Questa sera mi ha chiamato un amico che non sentivo da tempo. Un medico d’urgenza di quelli bravi, noti, che fanno scuola. Vive in un luogo che non è stato colpito dalla “prima ondata”.
Quando gli ho chiesto “Come stai?” mi ha raccontato di una signora che è entrata nella sua saletta in Pronto Soccorso nel pomeriggio, gli ha parlato dalla barella, e dopo mezz’ora era già morta, senza che lui riuscisse a far nulla. Ho avvertito sgomento nelle sue parole. E per un momento ho sentito la sua voce rompersi.
Mi ha ricordato le stesse scene vissute da me e tanti altri a marzo e aprile. Che ricomincio a vivere in questi giorni.
Mi sono chiesto quale dolore sia più forte: quello di chi riceve un tremendo e inaspettato pugno in faccia, come me a marzo e lui oggi, o quello di chi quel pugno l’ha già ricevuto e ne vede arrivare un secondo, senza possibilità di difesa?
È difficile rispondere.
Certo è che il dolore di oggi per molti di noi ha un sapore diverso, più amaro e nauseante, perché è mischiato al sapore della rabbia. Rabbia contro tanti: negazionisti, pseudo-programmatori, politicanti, saccenti, ingrati.
Credo che, non bastassero quelli che già abbiamo, tra i nostri problemi ci sia anche questo: la rabbia. È una rabbia sacrosanta, motivata, totalmente legittima.
Ma dobbiamo superarlo, il problema della rabbia. Perché la rabbia offusca lo sguardo più delle lacrime e ci impedisce di distinguere i contorni straordinari di ciò che, nonostante tutto, continuiamo a fare.
Per le ragioni della rabbia ci sarà il tempo: non perdoniamo né nascondiamo. Inevitabilmente si faranno analisi e bilanci. Sarà drammaticamente chiaro chi ha fatto e chi no. E non sconteremo niente a nessuno.
Ma oggi, lo dobbiamo a noi stessi prima ancora che ai malati, abbandoniamo la rabbia.
Torniamo a una sana tristezza, all’orgoglio e alla dignità. Non abbiamo bisogno di tornare all’impegno: già ci siamo.
Coraggio.