Sono infermiera da poco più di tre mesi. Ho avuto la grande fortuna di poter iniziare a lavorare dopo pochi giorni dalla mia laurea in ospedale prima in un reparto di chirurgia d’urgenza poi in medicina interna. Al mondo del lavoro non ti ci prepara nessuno, soprattutto nessuno ti prepara al forte impatto emotivo che affronterai nell’essere tu il “responsabile”. Ma col tempo ti ci abitui, impari a prendere le misure, impari a levarti la divisa e non ripensare continuamente se avessi portato a compimento tutto ciò che avresti dovuto fare.
A fine Febbraio arriva in Italia l’emergenza Covid, fino a poco tempo prima ne sentivamo parlare ai telegiornali e continuavamo a vedere quelle immagini spettrali delle città Cinesi semi deserte e di quei colleghi con i visi stanchi e segnati dalle mascherine, tutto un po’ surreale e sembrava quasi impossibile che potesse arrivare fino a noi. E invece eccolo lì, con tutta la sua virulenza è arrivato. Nei giorni di preparazione a lavoro abbiamo alternato attimi di negazione, paura e forse anche un briciolo di sottovalutazione. Ma poi anche noi, come i colleghi al Nord in 24 ore ci siamo dovuti adattare e convertire in un vero e proprio reparto di malattie infettive, abbiamo dovuto imparare a vestirci e svestirci da quelle tute così comode che presto sono finite. Molti gli interrogativi a cui, tuttora, non riusciamo ad aver risposta “basteranno i dispositivi a proteggerci?” “e se divento io il vettore di trasmissione?” il sentimento che fin da subito ci ha accomunato è stato l’istinto di protezione verso i propri cari. Ci siamo adattati ad una situazione in 24 ore, abbiamo fatto squadra, ci siamo mandati molti messaggi sul gruppo di lavoro di supporto… ma l’ansia si può tagliare col coltello, quando entri a lavorare percepisci la paura negli occhi dei colleghi, cerchi di sdrammatizzare e di smorzare situazioni ma non è sempre facile. Siamo professionisti, è vero, ma siamo anche persone, e la paura credo sia un sentimento più che lecito. Anche noi adesso abbiamo gli stessi visi dei colleghi cinesi, segnati dopo ore dentro quelle mascherine e visiere che si spera ci proteggano. Le insicurezze di chi lavora da poco più di tre mesi, come me, vengono fuori moltiplicate all’ennesima potenza, perché a questo giro non credo possa esistere nessuno che ci possa preparare a tanto. La notte dormi male e il giorno cerchi di non leggere i social per poter staccare, ma non è facile, vuoi o non vuoi l’argomento esce fuori sempre. E allora a casa, ripensi ai tuoi pazienti, a quelli che forse non ce la faranno, a quelli che ti chiedono di figli e nipoti, a quelli che ti dicono “mi sento solo, non mi cerca nessuno”. E tu provi a spiegargli che l’assenza dei parenti in reparto è per la loro incolumità, provi a spiegargli che i parenti sanno sempre tutto grazie ai nostri medici… ma non è facile, perché essere paziente ti aliena, essere paziente nei reparti “bolla” non ti permette di capire cosa succede fuori da quella stanza. Vedi i tuoi compagni di stanza con la tua stessa patologia magari essere intubati accanto a te, li vedi respirare male o li vedi andar via perché stanno meglio. Gli unici visi che vedi sono i loro, perché di noi, tutti vestiti uguali e coperti fino alla testa non vedono, a volte, neanche i nostri occhi, che spesso parlano e dicono più di tante parole.
Non è facile, ma mai come adesso dobbiamo continuare ad essere forti e professionali. Questo, per noi, per me giovane infermiera, è un’esperienza che ci segnerà per sempre. Ne usciremo più forti forti di prima, con qualche cicatrice in più nel cuore, ma ne usciremo. E mai come oggi posso dire, che nonostante la paura, il mio resta il lavoro più bello del mondo.