Fine Aprile, turno di guardia in Terapia Intensiva COVID.
Sono rimasti pochissimi pazienti ormai (per fortuna!…incrociamo le dita?…) così quando durante il solito giro pomeridiano di telefonate ai parenti la figlia di un paziente mi chiede di poter fare una videochiamata con il padre, invece di chiedere all’infermiera di farlo prendo io il tablet della Rianimazione e la chiamo. Ho tempo, posso permettermelo.
Squilla. Risponde. La vedo. Per la prima volta posso dare un volto a quella voce che tante volte ha ascoltato preoccupata dall’altro capo del telefono la mia che le comunicava notizie spesso difficili da digerire…”signora, suo padre ancora non si sveglia”-“signora mi dispiace ma suo padre oggi è peggiorato 29di nuovo”-“signora suo padre ha preso un’altra infezione”…
Sorride, è accanto alla madre, entrambe pur non essendo sicure di cosa e quanto il nostro povero paziente possa capire gli raccontano della giornata, lo incitano alla guarigione, gli dicono che non vedono l’ora di riaverlo a casa.
Chiudo la videochiamata salutandole con addosso un senso di vaga pesantezza.
Rimane aperto WhatsApp con la lista delle chat. La scorro. Tutti, ovviamente, sono i parenti di nostri ex-pazienti e io vedo foto profilo che ritraggono mogli, figli, nipoti, case, animali domestici… noto anche che qualcuno nel tempo ha provato a lasciare dei messaggi per alcuni dei nostri ricoverati (nella speranza forse che gli venisse consegnato il tablet o che gli fosse almeno letto il contenuto dei messaggi).
Vedo, insomma, tanti pezzetti che raccontano di vite umane normali e sconvolte. Sono minuscole tessere di un mosaico che mi costringe a riportare, in modo quasi violento, i nostri pazienti isolati dal mondo e il nostro lavoro reso più alienante del solito da tute, visiere e maschere impenetrabili ad una dimensione potentemente reale ed umana. Esseri umani che si prendono cura come meglio riescono di altri esseri umani, ognuno con le sue speranze, i suoi desideri e la paura di un futuro incerto dal quale nessuno sa più cosa aspettarsi.
Per cinque minuti mi concedo di essere appesantita da qualcosa che sconfina oltre l’empatia.
Riprendo a lavorare.
Finisce il turno, esco.
Amici colleghi mi hanno inviato la testimonianza vocale di un nostro ex-paziente che racconta in un’intervista alla radio la sua esperienza in Rianimazione. La ascolto mentre torno a casa. Ascolto la sua voce, forte come mai l’avevo sentita quando era ricoverato da noi, mentre ci ringrazia e si commuove raccontando i piccoli gesti di umanità che ha incontrato durante la sua degenza. Parla da casa sua, mentre guarda le montagne dal suo giardino, circondato dalla famiglia. Respira. Sta bene.
Ciò che negli ultimi due mesi mi aveva tenuta, seppur con qualche difficoltà e non sempre in modo completamente efficace, a debita distanza dal dramma umano di questa pandemia per potermi permettere di gestire pronazioni, desaturazioni e periarresti senza lasciarci le penne io, si rompe definitivamente.
Rientro in casa libera finalmente di concedermi un pianto liberatorio, uno scroscio che cade direttamente dalla nuvola che mi girava dentro da due mesi.
Aspettiamo ancora questo agognato arcobaleno.